Il vecchio e il bambino


di Alamanno Capecchi


Un uccellino vero uno che sverli
e mi consoli della mia vecchiaia.
Giovanni Pascoli


Camminavo lungo la strada di campagna, quasi un sentiero, che dal paese porta ai boschi vicini. In una mano il bastone, nell'altra la piccola mano di Gianni, quattro anni, capelli biondi e grandi occhi azzurri.
Un vecchio e un bambino si tenevano per mano, come nella canzone di Guccini.
Una bella giornata di fine aprile con un sole forte, chiaro,
abbagliante, lacerato in mille raggi, l'erba alta e verde piena di ranuncoli, e sui cigli e lungo le prode una miriade di piccole vite. Una lucertola comparve all'improvviso e frusciò via, una mantide verde saltò su una pianta di anemoni, al lato della strada, mettendo in fuga due farfalline azzurre che si contendevano i fiori.
Gianni guardava in terra sotto quel cielo primaverile celeste tenue percorso dal grido acuto e aspro dei rondoni, guardava tra l'erba verde, come nel libro di fiabe con il castello pieno di torri, la fata buona e la strega cattiva.
A un tratto si fermò; aveva veduto, seminascosto da una foglia secca e accartocciata, un piccolo uccellino verde: un bengalino verde, evidentemente fuggito dalla gabbia e morto di fame.



È difficile parlare di morte ad un bambino di quattro anni, parlare di "...un sonno che non ha caffè e latte al suo mattino".
Preferii inventare una storia. Dissi, ricordandomi il titolo di una fiaba della mia infanzia, che era l'uccellin bel verde; dormiva e il giorno dopo sicuramente si sarebbe svegliato.
Raccolsi il piccolo cadavere e lo portai a casa. Fortunatamente riuscii, nel pomeriggio, ad acquistarne uno, vivo e vegeto, in un negozio d'uccelli. Il mattino seguente, Gianni trovò accanto al letto una graziosa gabbia da salotto e sul posatoio "l'uccellin bel verde"
Non sono molto sicuro che il bambino abbia creduto alla mia storia ma una cosa è certa: ora che il Bengalino verde è in voliera gli porta, tutti i giorni, i semi e il pastoncino. Spero presto di avere un aiutante; con il passare degli anni l'allevamento comincia a pesarmi, si avvicina il giorno, quando, seduto in poltrona sfoglierò soltanto libri d'ornitologia e d'ornitocoltura. Fra tante fotografie e tanti disegni, però, un uccellino vero, almeno uno lo terrò finché avrò vita. Come dice il poeta: "un uccellino vero uno che sverli e mi consoli della mia vecchiaia”.

 


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Penso a Schiribicchio e alla sua storia che ha radici lontane nel tempo. Lo vidi a pochi passi da me, sotto le gabbie dei richiami da poco tolti dalla chiusa, "gonfio" e affamato, intento a mangiare i pochi semi che cadevano a terra. Corsi, bimbetto di sei-sette anni, a chiamare Nandino, il "famiglio tuttofare" perché me lo prendesse.
Lo catturò in un attimo, mulinando nell'aria le mani come artigli con la rapidità di un gatto. Cos'è? È uno
schiribicchio, e quella parola inventata divenne il suo nome. Schiribicchio era un "canarino comune" un Canarino senza blasone, più grigio che giallo, bruttino, cantore sgraziato e assordante; intelligente e simpatico.
D'allora tanti Schiribicchi mi hanno fatto compagnia durante il corso della vita e forse sarà proprio uno Schiribicchio l'uccellino che allieterà i miei ultimi giorni.